La posizione one-down è una delle caratteristiche peculiari del nostro modello di coaching: scopriamola insieme…
“I saggi non dicono tutto quello che pensano, ma pensano a tutto quello che dicono.”
Raimon Panikkar
Una delle raccomandazioni che più spesso rivolgiamo ai nostri corsisti di Scuola Coaching è “agire come il saggio che si finge stolto, restando in posizione one-down”. Ma cosa vuol dire?
Per descrivere chiaramente questo concetto, possiamo rifarci ad uno degli assiomi della pragmatica della comunicazione umana (Watzlawick, Beavin & Jackson, 1967): ogni interazione fra individui può essere simmetrica o complementare. Nel primo caso siamo di fronte ad una dinamica, scrivono gli autori, “caratterizzata dall’uguaglianza e dalla ‘minimizzazione’ della differenza, mentre il processo opposto caratterizza l’interazione complementare”. In quest’ultimo caso c’è quindi un soggetto che guida e l’altro che segue, uno che spiega e l’altro che impara, uno che parla e l’altro che ascolta, ecc.
Anche se apparentemente potrebbe sembrare auspicabile impostare una sessione di coaching all’insegna dell’uguaglianza, quest’ultima potrebbe risultare altamente disfunzionale: il rischio più grande dietro la simmetria, infatti, è quello dell’escalation simmetrica. È il caso in cui entrambi gli interlocutori vogliano avere ragione, affermando il proprio punto di vista su quello dell’altro; nessuno dei due cede, bensì insiste, traghettando la conversazione verso toni sempre più caldi e perentori.
Come coach ci troviamo spesso ad avere punti di vista differenti rispetto al nostro coachee (in fondo non è per fornire punti di vista differenti e nuove strategie che veniamo ingaggiati?) ed è perciò molto importante dotarsi di tutti gli strumenti necessari per promuovere il cambiamento nel modo più funzionale possibile.
Scartata dunque la posizione simmetrica, non ci resta che andare in direzione della complementarietà: dal momento in cui il coaching, tra i suoi obiettivi, si pone anche quello di valorizzare il coachee e la sua autonomia, possiamo ragionevolmente scartare l’idea di assumere una posizione one-up; farlo significherebbe erigersi ad esperti di settore, limitarsi a consigliare al coachee nuove strategie nell’illusione che, una volta conosciute, queste saranno poi messe in pratica. Tra l’altro, occupandoci di consulenza di processo, molto spesso può capitare di ricevere una richiesta di coaching su temi di cui non siamo (e non possiamo essere) esperti. No, la posizione one-up risulterebbe decisamente un autogol.
In che modo quindi possiamo assumere una posizione one-down, fornendo al contempo un servizio professionale e di valore?
Il nostro approccio presuppone che l’esperto della performance, oggetto del servizio, sia proprio il coachee: è lui/lei infatti a conoscerne le dinamiche, a poterci fornire le informazioni necessarie per sbloccare, sostenere o sviluppare la performance stessa.
Siamo decisamente contrari a quei modelli di coaching dove il coach si erige a superuomo/superdonna con la soluzione in mano: molto spesso infatti quella soluzione si limiterebbe ad essere una tentata soluzione, oltre che una squalifica indiretta nei confronti del coachee (eh sì, fornire in quattro e quattr’otto una soluzione a chi sta sbattendo la testa sulla propria performance da mesi/anni, è come dargli dell’imbecille… ammesso e non concesso che la fantomatica soluzione possa funzionare).
L’approccio one-down ha implicazioni molto precise nel protocollo di coaching (rammentandoci di partire dopo per arrivare prima), nell’uso delle tecniche (che devono avere sia obiettivi di ricerca che obiettivi di intervento – quest’ultimo, tra l’altro, meglio se generato in modo indiretto) e nella comunicazione strategica (prediligendo il domandare all’affermare, il far percepire allo spiegare, il persuadere al convincere).
Quali sono gli effetti desiderati? Promuovere una relazione coach-coachee fluida, coltivare uno stile d’interazione elegante (evitando modalità grottesche da “coach aggiustatutto”), puntare a responsabilizzare il coachee dei risultati ottenuti (o non ottenuti) durante il percorso, investire sulla sua autonomia.
Se ti fa piacere avere un confronto su questo approccio o se già ne condividi i principi, scrivici cosa ne pensi.
Al prossimo articolo!
Alberto
Condivido questo grande principio, anche se ammetto che non sia facilissimo attuarlo. Siamo troppo abituati ad essere in posizione up, in qualunque settore. Decisamente ritengo molto più produttiva la modalità suggerita e cerco sempre di applicarla, cambiando la mia vecchia abitudine e cerco anche di diffonderla. Faccio parte di un gruppo di giovani che cerca di trovare soluzioni agli effetti dei cambiamenti climatici e da adulta sono caduta spesso, parlando con loro, nella trappola della posizione up, anche se osservandomi sto corregendo la mia modalità. Sto cercando anche di diffondere questa modalità negli altri membri adulti. Ho condiviso il vostro prezioso articolo senza aggiungere commenti, lasciando che faccia il suo effetto senza rinforzo “sponsorizzante”. Grazie per i vostri notevoli contributi, semplici e di alta qualità.
[…] Ti invito perciò a leggere l’articolo che ho scritto per il blog del sito FYM, la società per la quale lavoro come docente e direttore didattico della Scuola di Coaching: clicca qui… […]