Qualche settimana fa mi è capitato di incontrare Giovanna, una mia cara amica preoccupata per il comportamento di Paolo, il suo bimbo di otto anni: da un po’ di tempo si dimostrava più irruente con le sorelline, duro nelle risposte date ai genitori e insofferente verso i compiti che le Maestre gli assegnavano. Dall’inizio dell’anno scolastico poi, già due volte le Insegnanti avevano voluto incontrare i genitori, per mettere al corrente la famiglia di alcuni comportamenti poco corretti tenuti in classe dal bambino.
Definirei la mia amica una mamma piuttosto presente, scrupolosa, non soffocante: diciamo una che riesce a gestire bene le dinamiche familiari, insieme al marito che, quando c’è (visto che spesso è fuori per lavoro), le dà una grande mano.
Eravamo seduti al bar, scambiando quattro chiacchiere: Paolo, l’ometto di casa, era impegnato a giocare a pochi passi da noi. Così Giovanna mi ha raccontato le sue preoccupazioni. Sul suo volto, nei suoi gesti e sospiri, ho letto molta tensione. Così le ho chiesto di chiamare Paolo, per farlo accomodare accanto a noi: il richiamo del succo di frutta bevuto insieme ai grandi aveva sortito il suo effetto.
Abbiamo cominciato a parlare di mostri, supereroi, animali e, con molta delicatezza, anche di “questo periodo speciale”. In effetti mi sono stupito di quanto Paolo avesse voglia di raccontare ciò che gli passava per la testa: un racconto appassionato, che correva tra le ingiustizie subite a casa quando le sorelle non gli permettevano di giocare con loro ai “giochi da femmine” e gli spintoni ricevuti a Scuola dai ragazzini più grandi.
Mentre ci raccontava la sua storia, in particolare quello che accadeva la mattina a Scuola, Paolo dichiarava di essere molto arrabbiato; paventava minacce rivolte a chi non lo voleva lasciare in pace e dichiarava la sua voglia di vendicarsi “perché quando è troppo è troppo”.
Con la coda dell’occhio vedevo Giovanna molto tesa: i suoi sospiri si facevano più frequenti e sul suo viso affioravano microespressioni di tristezza e paura. È impossibile non voler fare di tutto per far stare bene il proprio bimbo: così Giovanna aveva cominciato a tranquillizzare Paolo, spiegandogli come non fosse necessario vendicarsi e che, anzi, questo avrebbe rischiato di peggiorare la sua situazione. Il suo cuore di mamma la guidava a voler attenuare quella rabbia che lei aveva ascoltato nelle parole del bimbo. Si dava da fare quindi a smorzare i toni, a placare le intenzioni del figlio, dichiarate come decise e perentorie.
Eppure per me, in quel momento, era evidente qualcos’altro: sul viso di Paolo, in particolare ogni volta che parlava di alcuni compagni di Classe e di un altro paio di ragazzini più grandicelli presenti a Scuola, comparivano rapide microespressioni di paura.
Come diceva Emerson, un filosofo americano dell’800, “Ciò che fai urla così forte, che non riesco a sentire ciò che dici”. Eppure com’era possibile che proprio Giovanna, la persona che più di tutte conosce Paolo e che potrebbe disegnarne a memoria ogni singolo particolare, non riusciva a cogliere quel dettaglio non verbale così importante?
Così ho ricordato di quando, qualche anno fa, anche per me l’unica fonte di informazioni erano le parole. Certo, tenevo in considerazione i gesti e le espressioni più evidenti, ma non mi basavo sulle informazioni che i miei sensi mi avrebbero permesso di raccogliere: piuttosto mi affidavo alle sensazioni generali che la persona mi trasmetteva.
Cosa comporta non cogliere i preziosi messaggi che il corpo ci invia di continuo?
Quanto perdiamo in termini di ascolto e qualità relazionale?
Di certo, per chi si occupa di Coaching, avere a disposizione uno strumento affidabile per individuare le emozioni che vive il proprio Coachee rappresenta un grande vantaggio. Questo vale anche per chi non si occupa professionalmente di relazioni d’aiuto, ma vuole coltivare i propri rapporti in modo sano ed equilibrato.
Se non sappiamo come fare, il rischio più grande è quello di interpretare o dare per scontate molte cose: come la mia amica nei confronti del bambino, allo stesso modo un Coach potrebbe trascurare una microespressione di gioia che emerge (guarda caso) ogni volta che il Cliente parla del suo problema. Avere gli occhi allenati a rintracciare i movimenti che compaiono sul viso, anche i più impercettibili, consente in questo caso di individuare nitidamente eventuali auto-sabotaggi.
Allo stesso modo accorgersi di una micro-espressione di tristezza presente ogni qualvolta la persona avanza una richiesta, può aiutare a mettere a fuoco una pratica manipolatoria inconsapevole, messa in atto dalla persona (mi mostro ferito, così mi ascolti/aiuti). Questo meccanismo dà molti risultati nel breve termine (perché di fatto chi vede qualcuno triste tende a prestargli soccorso), ma rischia di alimentare problemi più grandi nel medio-lungo periodo (dal momento in cui risulta davvero pesante vivere accanto a chi si mostra ferito per ottenere ciò che desidera).
Inoltre, alcuni modelli di Coaching fanno riferimento alle sensazioni di base come terreno fertile per l’annidarsi di Tentate Soluzioni Disfunzionali e Ridondanti che alimentano il problema. Primo fra tutti il modello di Coaching Strategico, sviluppato dall’Istituto STC Change Strategies di Arezzo (diretto dal prof. Giorgio Nardone), va alla ricerca dei driver che muovono la persona: rabbia, piacere, dolore e paura.
Riuscendo a riconoscere la comparsa di questa emozioni sul viso della persona che richiede la nostra consulenza, possiamo contare su un valido aiuto per ottimizzare il processo di “sblocco” delle risorse.
Paul Ekman, lo psicologo americano che ha dedicato gli ultimi decenni alla ricerca sul tema delle microespressioni, ha codificato degli schemi riconoscibili e altamente affidabili, rintracciabili sul viso di qualunque persona (a prescindere dalla sua provenienza culturale).
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- Gioia
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- Disgusto/disprezzo
- Tristezza
- Sorpresa
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