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Piercarlo Romeo
sabato, 31 Maggio 2025 / Published in Blog

Il “possesso parola” nel coaching


 

Quanto deve ascoltare e quanto deve parlare un coach?

 
Quanto dovrebbe ascoltare un coach durante una sessione di coaching?
E di conseguenza, quanto dovrebbe parlare un coach in sessione?
Molti sostengono che un coach debba praticare ascolto (attivo) per il 75-80% del tempo di sessione e parlare, in media, solo il 20-25% del tempo.
Altri sostengono che prima si ascolta e poi si parla… e che quindi il “possesso parola” debba essere spostato tutto verso la fine della sessione. Ma sempre nella misura del 20-25%.
Nei modelli di coaching più “consulenziali” (passatemi il termine), il “possesso parola”, ovviamente, aumenta.
Alcuni, addirittura, trasformano le sessioni in vere e proprie lezioni individuali con un possesso parola tutto a vantaggio del coach. Quest’ultimo è un approccio che, a rigor di logica, neanche potrebbe essere definito coaching.
 
Nel nostro modello di coaching strategico il “possesso parola” in sessione non è una rigida definizione dei turni di conversazione, ma diventa una vera e propria strategia dialogica che punta ad influenzare e facilitare il processo di cambiamento. E in linea con la logica strategica, che per definizione è flessibile e mai rigida, non conta solo la quantità di parola, ma anche, e soprattutto, la qualità e il suo uso strategico, in relazione alla forma (come usare la parola), al tempismo (quando usarla) e anche alla sua assenza.
Eh sì… anche il silenzio ha una funzione strategica.

Cos’è il “possesso della parola”?

Possiamo individuare due livelli di “possesso parola”: un primo livello in termini di quantità di tempo parlato suddiviso tra coach e coachee; ed un secondo livello, più qualitativo, in termini di incisività: la capacità di influenzare la direzione della conversazione attraverso il linguaggio, le domande, le pause, il ritmo e i contenuti.
Sul primo livello, come già detto sopra, molti sostengono un rapporto 75% al coachee e 25% al coach.
Io ho una visione diversa. Queste percentuali non devono rappresentare un vincolo, né una rigida best practice.
Sicuramente è importante ascoltare attivamente e lasciare spazio ai coachee. Ma ricordiamoci che molti coachee, siccome pagano, e anche molto, pretendono qualcosa di efficace. Non vogliono solo un orecchio attento, ma un esperto di processi che possa aiutarli a mettere in campo le proprie risorse ed esplorare, in autonomia ma con supporto, le proprie soluzioni.
Grazie all’uso dell’intelligenza artificiale nell’analisi dei dati, ho esplorato il mio “possesso parola” nelle mie ultime 5 sessioni di coaching, e in questa immagine si vedono i grafici.
 

 

Come si può vedere oscillo da un minimo del 33% ad un massimo del 49%. Ben oltre il 20-25% raccomandato da molti.
È corretto? È sbagliato? Chi può dirlo? Neanche io, pur essendo direttore e docente di una scuola coaching, posso dirlo.
Noi dobbiamo per forza far riferimento al punto di vista del coachee e all’efficacia e all’efficienza del caso. Se chiusi con successo pieno, allora va bene.
Qualche altro coach ha il “possesso parola” al 20%? Se i suoi casi sono di successo, va bene.
Ad ogni modo, guardando l’immagine, emerge che, anche in un modello e un approccio molto “interventista”, come quello strategico che usiamo noi, comunque il possesso parola maggiore è del coachee.
A noi coach non interessa avere la “palla” per la maggior parte del tempo.
A noi interessa averla poco… ma fare “goal” al momento giusto, con la domanda giusta, la parafrasi incisiva, la ristrutturazione illuminante e con l’analogia calzante.
Nel coaching strategico, il possesso della parola va mantenuto non per affermare il proprio punto di vista, ma per guidare il processo di esplorazione e di trasformazione del coachee.
È questa “danza comunicativa” che permette al coach di essere orecchio, specchio e guida allo stesso tempo.

 

Il paradosso: guidare lasciando spazio

Un rischio frequente, specialmente per i coach alle prime esperienze, è quello di perdere il possesso della parola lasciandosi trascinare nei racconti, nelle giustificazioni, nei dettagli inutili o nei tentativi del coachee di fuggire dal focus. Al contrario, un coach strategico si allena a non farsi ipnotizzare dalle parole dell’altro.
Il trucco è mantenere il controllo della conversazione senza bloccare l’espressione del coachee. In pratica, è come nelle scuole guida: il coachee guida in autonomia, è libero di usare i pedali, il cambio ed il volante. Ma il coach al suo fianco ha i “comandi di sicurezza” e lo guida durante la pratica. Con l’obiettivo, nel tempo, di ridurre il proprio intervento, fino a scendere dalla vettura e far proseguire il coachee in autonomia.
Ovviamente il supporto va esercitato.
E anche in questo caso, mi sono divertito ad analizzare le metriche di una sessione, per evidenziare il mio “stile di guida”.

 

 
L’immagine è relativa ad una quarta sessione di un caso di executive coaching con un dirigente di una multinazionale.
È evidente che nella prima parte della sessione (durata circa 35 minuti) sono in modalità ascolto. C’è qualche domanda e qualche parafrasi e al coachee viene dato spazio per raccontare come sono andate le attività assegnate (workout) e cosa è cambiato dall’ultima sessione.
C’è poi una seconda fase evidenziata in rosso, in cui aumenta il mio “possesso parola”, in quanto faccio più parafrasi e porto avanti qualche doverosa ristrutturazione. Ovviamente anche in questa fase il coachee partecipa, è attivo e condivide le riflessioni… ma il “possesso parola” scende un pochino.
Infine c’è la terza fase, quella in cui do le indicazioni di fine sessione e assegno i “compiti per casa”… anzi, per l’ufficio!
In quest’ultima fase, aumenta ulteriormente il “possesso parola”. E non solo. Si aggiunge anche uno stile molto più ingiuntivo.
Guardando questa immagine mi viene da dire che mi gioco il 37% del “possesso parola” per far si ché alla prossima sessione il coachee arrivi avendo realizzato il 100% del cambiamento da lui desiderato… per potergli lasciare almeno un 30-40% del tempo per narrarmelo. E così via…

Un coach, soprattutto alle prime esperienze, può cadere in due grandi “trappole”:

1 – cercare di possedere la parola per la maggior parte del tempo;
2 – perdere il possesso parola, perdendo anche il “filo” del processo di coaching.

Quando il coach monopolizza la parola

La prima trappola da evitare è quella di monopolizzare il possesso “palla” durante la sessione.
I suggerimenti pratici per evitare questo rischio sono:

  • guardare il coachee e monitorare le sue reazioni e i suoi livelli di attenzione mentre parliamo;
  • fare domande e poi lasciare spazio;
  • usare degli spazi di silenzio per dare ritmo alla sessione e alla “danza comunicativa”;
  • prendere appunti (o segnare mentalmente ciò che dice) per poi ripeterlo con parafrasi brevi e sintetiche;
  • seguire le narrazioni del coachee finché si muovono all’interno della “cornice” del caso, stimolando l’espressione.

Quando il coach perde il possesso della parola

La seconda trappola, è quella di perdere il “possesso parola”.
Questo porta spesso a sessioni dispersive, dove il coachee si sfoga ma non si muove. Il risultato? Una soddisfazione apparente, ma nessun reale avanzamento.
Per evitare queste sessioni “diluite” e poco concrete, bisogna stare attenti a:

  • non inseguire le spiegazioni razionali del coachee;
  • non farsi coinvolgere emotivamente;
  • non rinunciare a gestire il processo dialogico.

Di conseguenza un coach abile deve saper:

  • interrompere con eleganza il coachee quando è doveroso (anche solo con uno “stop non verbale” on con “micro interruzioni strategiche”);
  • riportare il coachee sui temi della sessione con domande precise (specie quando il cliente salta da un argomento all’altro o aggiunge troppe informazioni);
  • gestire il ritmo e la struttura del dialogo con la giusta alternanza di domande, parafrasi e linguaggio analogico in una “danza” ben coordinata;
  • usare bene il linguaggio non verbale per dare ritmo alla sessione (non solo con i silenzi, ma anche con la gestualità e le espressioni facciali).

Il coach come “custode” del processo

Il possesso della parola non si misura dalla quantità di parole pronunciate, ma dalla capacità di “custodire il processo”.
Il coach strategico è come un direttore d’orchestra invisibile: non suona, ma fa suonare bene l’altro, mantenendo armonia e coerenza.
Quando un coachee parla per 20 minuti ma segue una traiettoria coerente, è perché il coach ha saputo tenergli il tempo.
E quando il coachee si blocca o divaga, è il coach che deve riprendere la bacchetta e rimettere in ritmo il dialogo.

In sintesi

Nel coaching strategico, il possesso della parola è un atto intenzionale e al servizio del cambiamento. Non si tratta di dominare l’altro, ma di “custodire il processo trasformativo”, proteggendolo da dispersioni, resistenze e automatismi comunicativi.

Chi guida la parola, guida il cambiamento.
E nel coaching strategico, significa far emergere, non imporre.

Buon Coaching!

Piercarlo

 

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Tagged under: coaching, coaching strategico, comunicazione, comunicazione nel coaching, scuola coaching

1 Comment to “ Il “possesso parola” nel coaching”

  1. Angelo says : Rispondi
    31 Maggio 2025 at 18:47

    Grazie per essere sceso nel dettaglio, molto riflessivo come sempre 🙏

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