Il Coaching non va in soluzione, ma fa arrivare alle soluzioni
Durante le nostra attività di supervisione alle prime esperienze pratiche dei nostri corsisti, una delle osservazioni che più frequentemente restituiamo è la tentata soluzione di andare in soluzione o proporre consigli, suggerimenti e ipotetiche soluzioni.
Ma il Coaching, secondo noi e secondo molti modelli, non va in soluzione.
Anzi, uno dei costrutti fondamentali del Coaching è proprio il suo essere una consulenza di processo che supporta il cliente a trovare in autonomia le soluzioni e/o le strategie per sbloccare, sostenere o sviluppare le proprie performance, professionali o sportive.
Il consiglio può dartelo chiunque: l’amico, la nonna, il vicino di casa, lo youtuber e l’esperto.
Ma per il coaching, invece, l’esperto della propria performance è il cliente stesso. Un coach può “solo” aiutarlo ad aiutarsi, facendo in modo che possa mettere in campo tutte le proprie risorse mentali, emotive ed operative per realizzare quanto desiderato.
È molto semplice, ma sappiamo che non è facile. Guidare un processo senza guidarne i contenuti non è facile. Servono abilità comunicative, destrezza relazionale e tanta strategia.
E secondo noi proprio questa non facilità nel rimanere sul processo, genera nel coaching due frequenti “derive”:
1 – molti coach se ne fregano e vanno in soluzione;
2 – molti coach pur di non andare in soluzione si perdono in giri di domande e di parole che non guidano il processo e che danno la sensazione di perdita di tempo e di poca concretezza.
Nel primo caso abbiamo le varie formule che promettono “miracoli per tutti”: le 4 regole per vincere, i 7 passi per essere leader, le 3 leggi della felicità, le 5 tecniche segrete per sconfiggere qualsiasi drago (… concedetemi un po’ di ironia…). Domanda: ma quante volte sappiamo cosa fare e non lo facciamo? Quante volte ci hanno detto cosa fare e non lo abbiamo fatto o non avevamo la certezza che potesse funzionare nel nostro caso? Cosa ci fa pensare che un consiglio risolva tutto? E cosa ci fa pensare che il consiglio, anche se giusto, poi venga agito?
Nel secondo caso, invece, il coach sembra non saper che pesci prendere, formulando e riformulando domande che il cliente potrebbe porsi anche da solo (e spesso lo ha già fatto) o che non portano da nessuna parte: “ma tu cosa vuoi veramente?”, “quanto desideri raggiungere questo obiettivo?”, “e cosa farai una volta realizzato questo obiettivo?”, “quanto è importante per te?”, “cosa provi?”. Domande che spesso non facilitano l’intervento sul processo, che con l’autoinganno di non voler influenzare il cliente, lo fanno perdere in giri cognitivi che non sempre funzionano.
A causa di queste due derive, “ti do io la soluzione” e “ci giriamo intorno“, molti confondono il coaching con le chiacchiere da bar o con i consigli scontati della nonna.
Diverso è, invece, condurre una consulenza di processo, in cui, in una danza alternata tra indagare e intervenire, il cliente in autonomia scopre nuovi punti di vista, nuove risorse, nuove soluzioni e in autonomia le agisce, in un processo di scoperta congiunta che sorprende il coachee… e anche il coach.
In questo modo ciò che acquisisce valore non è la soluzione (sapendo che la stessa applicata ad un altro problema o in un contesto o in un momento diverso potrebbe non funzionare) ma il processo di ricerca della soluzione.
Un processo dialogico (e non dialettico) che con i suoi “Effetti Collaterali Operativi” (E.C.O.) porta il cliente a trovare una o più soluzioni in piena autonomia.
Le soluzioni già pronte risultano affascinanti e attraenti, ma non sono quasi mai la risposta. La soluzione è trovare in autonomia le proprie soluzioni e un Coach professionale non fa altro che supportarci in questo processo di scoperta.
Piercarlo