Sempre più spesso veniamo coinvolti in progetti di Change Management aziendali. I soggetti coinvolti in grandi processi di cambiamento sono molti, sia interni che esterni. E sempre più spesso ci troviamo di fronte a veri e propri corsi di Change Management rivolti ai soggetti interessati al cambiamento.
Da questa modalità noi ci permettiamo di prendere un po’ le distanze, in quanto il cambiamento non è un corso, ma un percorso, che prevede momenti di consulenza strategica, momenti decisionali, e poi, solo alla fine, momenti formativi.
Secondo noi un corso di Change Management potrebbe essere erogato solo ai professionisti chi si occupano di change management. E come ogni buon corso/percorso, dovrebbe prevedere momenti di affiancamento e di pratica in progetti reali: esercitazioni sul campo.
La parola che più spaventa nelle organizzazioni è CAMBIAMENTO. Organizzare dei corsi sul cambiamento all’interno di un’organizzazione, spesso equivale, in una logica paradossale, ad alimentare le resistenze e le paure dei soggetti che dovranno cambiare. Secondo noi il cambiamento va incentivato, non imposto. Ed il miglior change management è quello che non si vede, ma si percepisce. Anzi, deve fare in modo che il cambiamento sia desiderato da tutta la struttura, in modo da ottenere partecipazione e coinvolgimento attivo di tutta la struttura.
Vi faccio qualche esempio: nonostante siamo nel 2015, nelle aziende, soprattutto nelle medie e grandi imprese, c’è ancora molta resistenza all’innovazione tecnologica. In moltissime aziende si usa ancora carta e penna durante le riunioni. Ne consegue che ognuno esce con i propri appunti, su carta, non condivisi e difficilmente condivisibili con i colleghi. Quando introduciamo l’idea di realizzare un meeting report condiviso in cloud o nella intranet aziendale, vediamo le prime resistenze. Ma se prima facciamo delle richieste che fanno emergere i limiti dei vecchi processi di gestione dei meeting (ad esempio un responsabile assente che chiede informazioni sulle “action list”) il virus del cambiamento inizia a insinuarsi nelle persone. Una una volta mostrata la semplicità di alcuni strumenti (spesso gratuiti) e i vantaggi lavorativi di una nuova procedura, il cambiamento diventa desiderato e facilitato da questa voglia di innovazione e aggiornamento.
Ovviamente il cambiamento in questione non va presentato solo come un’innovazione organizzativa, ma, soprattutto, come un aggiornamento delle competenze personali.
Per questo, secondo noi, buon change management non può essere un corso, ma un percorso, in cui ci sono molte fasi:
- analisi dei processi attuali dell’intera organizzazione;
- analisi delle performance organizzative attuali;
- analisi delle performance individuali attuali;
- analisi delle competenze attuali (individuali e integrate);
- analisi delle competenze necessarie per i nuovi obiettivi;
- scelta dei nuovi processi organizzativi;
- scelta delle innovazioni (tecnologiche e non) da implementare nella nuova organizzazione;
- analisi della sostenibilità (interna ed esterna);
- formazione (e/o coaching) knowledge based in funzione del nuovo business design e dei bisogni individuali e di struttura;
- formazione (e/o coaching) skill based in funzione del nuovo business design dei bisogni individuali e di struttura;
- valutazione e superamento delle resistenze al cambiamento (in corso d’opera);
- valutazione dei nuovi processi e dei nuovi risultati;
- rinforzo dei cambiamenti efficaci e azioni correttive.
Come si può vedere, la formazione e/o il coaching sono solo una piccola parte del processo. Il rischio sarebbe di “rigetto” da parte dell’organizzazione di quei cambiamenti non ben progettati e pianificati, sia nella loro efficacia che nella loro sostenibilità interna ed esterna.
Questo è solo un esempio. I modelli di change management sono tantissimi: il modello di Kurt-Lewin, il modello di Kübler-Ross, la Lean organization, la Learning organization, il modello di ADKAR, etc…
A prescindere dal modello scelto, o dalla possibilità di disegnarne uno proprio, il ciclo della ruota di Deming, PLAN, DO, CHECK e ACT ci ricorda che tutto inizia da una buona pianificazione. Fallire la pianificazione vuol dire pianificare il fallimento, spendere soldi e, soprattutto, tempo prezioso per l’azienda.
Molte aziende, nella “fretta” del bisogno di cambiamento, scelgono di partire dal “DO”, dall’azione, senza però pianificare correttamente la direzione del cambiamento. Sarebbe come arrivare in aeroporto e salire sul primo aereo in partenza, solo perché si ha fretta e l’aereo sembra migliore in quanto ha già i motori accesi.
In questi casi, ricordiamo sempre che un antico stratagemma cinese può essere utilissimo: PARTIRE DOPO PER ARRIVARE PRIMA.
Buon CAMBIAMENTO e buon MANAGEMENT!
Piercarlo Romeo