A cosa dovrebbe rispondere la formazione?
Da quasi 15 anni progettiamo percorsi di formazione aziendali su misura e altamente personalizzati.
E in questa esperienza di “learning & training design” ci siamo confrontati e ci confrontiamo con esigenze e richieste sempre diverse, ma accomunabili in quelli che potremmo definire come dei “macro-orientamenti” di attenzione da parte dei clienti.
Molti, ad esempio, cercano sempre qualcosa di nuovo. Temono la noia, a tal punto da far fare ai propri collaboratori attività più assimilabili ai “giochi senza frontiere” che a dei corsi di formazione. Di fronte a queste richieste, ad esempio, laddove l’orientamento all’apprendimento è prossimo allo zero, noi consigliamo di rivolgersi a degli animatori.
Semplicemente perché la domanda guida a cui deve rispondere l’intervento richiesto è “Quanto si divertiranno?”, magari dando per scontato che il divertimento da solo funzioni come elemento aggregante (ma se basato su logiche competitive può funzionare anche come elemento disgregante).
Da queste continue richieste abbiamo riflettuto negli anni sulle domande più importanti a cui dovrebbe rispondere la formazione.
E trovare queste domande non è una risposta facile…
Ma esploriamone insieme qualcuna.
1 – Cosa impareremo?
Per molti questa è la domanda a cui la formazione dovrebbe poter rispondere: cosa apprenderanno i partecipanti?
Sicuramente la formazione e la funzione didattica sono legate all’apprendimento, ma questo andrebbe suddiviso in varie categorie logiche.
Una prima suddivisione è tra conoscenze e competenze.
Un conto è imparare che Cristoforo Colombo è sbarcato nelle Americhe il 12 ottobre 1492 (e questa è una conoscenza), un conto è imparare come abbia fatto Colombo a guidare 3 caravelle, con equipaggio di circa 120 uomini (di cui molti anche ex galeotti), in una navigazione di quasi 3 mesi laddove avevano previsto circa 3-4 settimane, senza ammutinamenti. Sicuramente ebbe qualche problemino… ma riuscì a gestirlo. Imparare a fare “come” fece Colombo e, per dirla in termini moderni, sviluppare uno stile di “leadership” come il suo, non è conoscenza ma competenza, che possiamo semplificare con il concetto di “saper fare”.
Ma ci possono poi essere tante altre categorie logiche, anche sui saperi e sulle competenze.
Ad esempio l’applicabilità di quanto appreso al proprio contesto o al proprio ruolo.
Oppure l’utilità.
Così come anche la validità e la validazione. Spesso abbiamo incontrato aziende che avevno svolto percorsi di formazioni su strumenti e tecniche che addirittura nelle varie ricerche scientifiche erano stati invalidati (come ad esempio molti strumenti divulgati dalla PNL).
2 – Come impareremo?
Molti, invece, si focalizzano più sui metodi che sui contenuti. Spostano l’attenzione dal cosa al come. Ecco che chiedono quali sono le metodologie didattiche, quali i livelli di “engagement” e coinvolgimento. Chi è più tecnico chiede qualche elemento metodologico in più. Ma spesso si focalizzano sul “come” quasi trascurando il “cosa”. Ecco che indagano i tempi, l’agenda, le metodologie, l’alternanza delle metodologie e la gestione dei livelli di attenzione.
3 – A cosa servirà?
Altri ancora, invece, si focalizzano sull’utilità di ciò che apprenderanno e su quello che molti chiamano “ROI della formazione”, un tema non semplice e non del tutto definibile con contorni chiari e precisi in quanto sotteso da dinamiche complesse e da vari livelli di responsabilità, individuale ed organizzativa. In questi casi il focus è sull’utilizzo pratico, quindi sull’applicazione di quanto appreso e dei benefici che ne dovrebbero derivare.
Queste sono le domande principali che incontriamo, e sono tutte legittime ed utilissime.
Così come dobbiamo sapere che possono esserci tante altre domande a cui poter rispondere e che ci sono state poste in quasi 15 anni.
Ma secondo noi ci sono due domande in particolare che devono essere poste per prime. E solo dopo aver risposto a queste due domande possiamo rispondere alle altre.
La prima domanda è:
“Cosa sapremo FARE di diverso dopo questo (per)corso?”
Il focus è sul FARE, quindi sull’agire e non sul semplice sapere. Quindi non è un “cosa” qualsiasi, ma un “cosa” fatto di competenze, e ben allenate, perché per poterlo FARE dopo il “(per)corso” devi averlo allenato bene bene anche durante la formazione.
Prendiamo ad esempio un percorso di formazione sulla “Cultura del Feedback“: dopo la formazione i partecipanti sapranno CHIEDERE feedback, RICEVERE feedback, anche quelli più difficili da digerire e DARE feedback, anche quelli più complessi da dare, con efficacia ed eleganza comunicativa e comportamentale. Chiedere, ricevere e dare sono azioni concrete, pratiche e agibili nella quotidianità lavorativa. Non sono astrazioni intangibili, che per quanto affascinanti, dovremmo sempre ricollegare a comportamenti concreti ed osservabili.
La seconda domanda è:
“Cosa otterremo di diverso grazie a questo nuovo fare?”
Questa domanda è simile alla domanda numero 3 “A cosa servirà”, ma riformulata in modo più responsabilizzante. Di ogni nuovo agire dobbiamo chiederci quali sono gli effetti che produrrà, in modo da poter valutare l’efficacia del contenuto e anche la priorità del contenuto rispetto ad altri contenuti. Se la risposta è, ad esempio, “potremmo dimezzare gli infortuni sul lavoro“, ecco l’utilità è evidente e la priorità anche. A questa domanda bisogna rispondere con attenzione, perché non è sempre facile prevedere correttamente gli impatti dello sviluppo di nuove competenze. Bisogna tener conto di molte variabili: del contesto, dell’organizzazione, del momento specifico organizzativo, dei partecipanti, dei ruoli, dei meta-messaggi inviati dall’organizzazione con la formazione… e tanto altro. Ma anche se complessa, questa domanda è fondamentale e deve avere risposte. Volutamente al plurale, perché gli impatti, in una visione sistemica, sono sempre molti e raramente uno solo.
Torniamo all’esempio precedente e ragioniamo sugli impatti della “Cultura del Feedback”: non solo migliora la comunicazione a 360 gradi (top-down, bottom-up, tra peer e con gli esterni), ma influenza il clima organizzativo, stimola l’innovazione continua, la condivisione di idee e arriva ad influenzare anche i processi di selezione del personale, diventando uno degli elementi oggetto di indagine da parte dei selezionatori.
Solo dopo aver risposto a queste prime due domande, potremmo esplorare i contenuti (e la loro coerenza con gli obiettivi), le metodologie, il livello di convolgimento, l’altrenanza delle metodologie, ecc…
Queste sono, secondo noi, le domande più importanti a cui dovrebbe rispondere una buona formazione.
Piercarlo Romeo
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