Si parla spesso di stato di FLOW, ma cos’è in realtà?
Rimango spesso affascinato da alcuni concetti. A volte da alcuni modelli e teorie. Altre volte da semplici parole chiave. Ma dopo questo stupore iniziale, poi amo andare alle fonti e scoprire cosa si nasconde dietro ogni termine, dietro ogni modello e teoria. E soprattutto, come azienda, amiamo trovare modi per rendere teorie e modelli applicabili in modo pratico e funzionale alla vita di tutti i giorni… nella vita degli individui e nella vita delle organizzazioni.
Una delle belle parole che da tempo circola nel mondo del Coaching e della Formazione, e che mi ha sempre affascinato è FLOW.
Si parla sempre più spesso di “stato di flow“: “bisogna entrare in uno stato di flow“, “quell’atleta era nel flow“, “quel team lavora in flow“, etc…
Ma cos’è? Cosa significa? Cosa c’è dietro (e anche dentro, intorno e accanto!) al concetto di FLOW?
I primi a teorizzare lo stato di FLOW sono stati gli studiosi Massimini, Csikszentmihalyi e Carli, che in uno studio pubblicato nel 1987 sul “Monitoraggio dell’esperienza ottimale…“, hanno presentato per la prima volta un modello di 8 aree di attivazione, che si generano incrociando i livelli di impegno richiesti da un’attività (challenge level e i livelli di competenza del soggetto impegnato dell’attività.
Si creano così 8 aree, che hanno diversi livelli di attivazione, di motivazione e di ingaggio.
Il modello, anche solo graficamente è molto immediato e intuitivo.
Bassa competenza impiegata in un compito che richiede un basso impegno, genera APATIA: manca l’interesse e il soggetto vive il compito con indifferenza.
Bassa competenza con un compito che richiede un impegno medio, genera PREOCCUPAZIONE: il compito è percepito come difficile.
Peggio ancora se affidiamo un compito con alte complessità a chi ha poche competenze: vivrà in uno stato di ANSIA, paralizzandosi completamente di fronte al compito assegnato.
Una competenza media che si confronta con un compito di basso profilo, genererà NOIA. Il soggetto non percepirà le proprie aree di incompetenza o di miglioramento, ma percepirà il compito come poco sfidante, annoiandosi.
Mentre assegnare un compito sfidante a chi ha una competenza media può generare ECCITAZIONE ed attivazione.
L’alta competenza, invece, quando si confronta con un compito poco sfidante, può entrare in uno stato di RILASSAMENTO: manca la sfida e l’attivazione, ma il soggetto è competente e consapevole della propria competenza, quindi saprà comunque gestirsi emotivamente anche di fronte al basso livello di engagement.
Mentre un compito di medio impegno assegnato a chi ha alte competenze, genererà uno stato di CONTROLLO: il soggetto sa cosa fare, come farlo, e percepisce l’incarico sotto il suo pieno controllo. Controllo che mantiene mediamente attiva la sua attenzione.
Si raggiunge lo stato di FLOW quando l’alta competenza si confronta con un compito sfidante.
In questo stato, il soggetto sa cosa fare e come farlo, ha un’alta percezione del livello di sfida e delle proprie competenze, ed è focalizzato sul compito e libero da distrazioni.
Si altera la percezione del tempo, si prova un piacere intrinseco, si ha una sensazione di controllo e la concentrazione è massima.
Per questo motivo lo stato di FLOW è desiderato da molti: nel business viene chiamata PERFORMANCE OTTIMALE, e nello sport TRANCE AGONISTICA.
Ma quali sono le implicazioni pratiche di questo modello?
A nostro avviso sono molte, soprattutto in ambito professionale e personale.
Per prima cosa, bisogna mettere in discussione la tendenza a sovraccaricare con compiti difficili profili con basse competenze. Sarebbe più funzionale e strategico puntare ad accrescere e sviluppare il loro livello di competenza, in modo da poter assegnar loro, successivamente, compiti sempre più sfidanti e complessi.
Così come, per i profili con alte competenze, è bene variare i compiti, alternandoli tra FLOW, controllo e, ogni tanto, rilassamento.
Come i militari, che non possono stare sempre in prima linea, bisogna alternare gli incarichi, i compiti e i livelli di attivazione. Così nello sport: non si può gareggiare ogni giorno, e non c’è un’olimpiade ogni anno. I livelli di impegno devono variare e devono essere cadenzati e calendarizzati.
Stando attenti, però, a non esagerare nel senso opposto: bisogna comunque assegnare compiti sfidanti e tenere alta l’attenzione, l’attivazione e l’engagement delle persone.
Per questo motivo, da Mental Coach Sportivo, non condivido l’eccesso di “garette” di poco valore, o l’attivazione per solo una o due gare l’anno.
Anzi, secondo noi il modello deve puntare all’autosviluppo: una continua fluttuazione tra FLOW, eccitazione e controllo, che punta ad innalzare i livelli di competenza e i livelli di sfida sostenibili.
Il nostro consiglio?
Createvi una matrice in cui inserire le varie sfide e i vari compiti, individuali e organizzativi, suddividendoli in basso, medio e alto impegno, incrociandoli con i vari livelli di competenza (professionale o sportiva). E poi sperimentate l’assegnazione di compiti non casuali, ma ragionata per “sfida e competenza”.
La vera sfida è nel rendere gli ambienti di lavoro stimolanti per i gruppi che vogliono lavorare in FLOW e insegnare agli atleti a raggiungere il FLOW nel momento desiderato.
Buon FLOW a tutti!
Piercarlo
PS: se ti interessa l’importanza del FLOW nello SPORT, ti consiglio il corso di SPORT COACHING.