Perché molti coach non fanno coaching o non sono efficaci!
Dalla nostra esperienza, possiamo dire che i problemi della maggior parte dei coach si possono racchiudere in due grandi macro categorie logiche:
1 – non sapere mai cosa fare;
2 – sapere sempre cosa fare.
Non sapere mai cosa fare
Sono molti i coach che si rivolgono alla nostra Scuola lamentando che non sanno mai cosa fare e come farlo. Quando il problema è non saper cosa fare sappiamo che il percorso di studi si è svolto su un modello che manca di un protocollo che supporti nel definire una chiara sequenza logica del percorso.
Come già detto più volte, un protocollo di Coaching che si rispetti deve garantire rigore e flessibilità: rigore nel percorso logico da seguire e flessibilità nel poter adattare il percorso a qualsiasi cliente e su qualsiasi caso (ovviamente nell’ambito di competenza del coaching e quindi della performance).
Molti coach, pur avendo una sorta di protocollo o sequenza logica, non sanno mai cosa fare anche perché non hanno mai assistito a casi reali durante la propria formazione: quindi saprebbero cosa fare “da manuale”, ma non avendone mai visto l’applicazione, brancolano nel buio del disorientamento e dell’improvvisazione.
Alcuni, conoscono solo qualche “insalata” di tecniche: ma conoscere qualche parola è diverso dal conoscere una lingua. Chi non sa mai cosa fare, ad esempio, non sa come iniziare un caso, non conosce le principali categorie logiche dei casi di coaching, non sa come condurre una sessione o non sa come chiudere un caso. In pratica chi non sa mai cosa fare non ha un protocollo operativo e non ha mai visto fare coaching su casi reali.
Sapere sempre cosa fare
Dall’altra parte esistono quelli che sanno sempre cosa fare, in qualsiasi situazione. Altri, per semplificare, fanno sempre le stesse cose. Conosco coach che in prima sessione usano sempre la “ruota della vita”. Mi è capitato anche di domandare “Scusa, ma se uno si rivolge a te per aumentare la propria efficacia nella leadership interna, tu comunque gli sottoponi la tua ruota della vita?”… e la risposta è stata “sì”. Ecco, questi, a mio avviso, sono modelli forti, rigidi, che dicono cosa fare in modo predefinito e senza tener conto delle variabili di caso. Così conosco coach che fanno fare sempre sessioni di rilassamento, ruote della vita, tecniche di visioning, a prescindere dal caso, dal momento del coachee e dalle sue caratteristiche. Sicuramente è più rassicurante del “non sapere mai cosa fare”, ma il rischio di scarsa professionalità, dal mio punto di vista, è altissimo. Ho conosciuto coach che in prima sessione usano la tecnica 1, in seconda la tecnica 2, e così via. Sarebbe come dire che in prima sessione uso il martello, in seconda uso il cacciavite, in terza la pinza, etc… senza personalizzare l’intervento sulle peculiarità del caso. Funziona? Personalmente ho più di un dubbio, anche se capisco il potere rassicurante di un approccio del genere rispetto al precedente. La caratteristica dei modelli forti e rigidi è che richiedono che sia l’obiettivo ad adattarsi al modello e non il contrario. Quindi, se tu hai l’obiettivo di aumentare il tuo fatturato, loro ti fanno comunque fare una sessione di rilassamento, perché nella loro idea chi è rilassato fattura di più. Oppure ti propongono la ruota della vita, perché nella loro idea conoscere le proprie aree di sviluppo porta ad un aumento del fatturato. Sarebbe bello se fosse vero, ma purtroppo, o per fortuna, la realtà e il mondo della performance sono molto più complessi di quanto non possano farci credere modelli semplicistici.
Sapere cosa come per definire (insieme) cosa fare
C’è una terza prospettiva, per fortuna, che unisce rigore e flessibilità: non saper cosa fare, ma sapere come fare per definire (insieme al coachee) cosa fare e come farlo!
Per questo il modello strategico fornisce un protocollo, quindi una sequenza logica, che guida il processo e che al tempo stesso supporta il coach e il coachee nel confrontarsi con le variabili del caso e con i “normali” imprevisti di percorso. Un po’ come un navigatore, che con la sua funzione “ricalcolo del percorso”, considera a priori la possibilità di deviazioni in itinere o di variabili imprevedibili. In questo caso il modello fornisce una sequenza logica, quindi insegna a pensare per specifica categoria logica di obiettivo/problema, fornendo al tempo stesso le principali “manovre” da mettere in atto e le possibili variazioni da utilizzare. Ecco che, ad esempio, sappiamo cosa fare nei casi di decision making, ma abbiamo anche strumenti e tecniche per personalizzare e calzare l’intervento al singolo caso specifico. Così come sapremo cosa fare nei casi di tensione pre-performance, che sono completamente diversi dai casi di decision making. In pratica bisogna avere una “guida logica” che permette di “innestare” le personalizzazioni strada facendo. In questi casi possiamo parlare di un modello vero e proprio, in quanto permette di affrontare l’incertezza, l’imprevedibilità e le peculiarità che caratterizzano ogni singolo caso di coaching. Ovviamente, come già detto in più occasioni, l’apprendimento di un modello così pratico avviene attraverso la pratica su casi reali: il vedere coach professionisti usare il modello con clienti reali dalla prima fino all’ultima sessione, per poi sperimentarlo in prima persona ricevendo feedback sull’uso del modello stesso, fa sì che lo si possa apprendere praticamente e operativamente, sviluppando anche fiducia in sé e nel modello stesso.
E come diciamo spesso ai coach che si formano con noi: vi auguriamo di avere sempre il dubbio su cosa fare, ma di avere anche gli strumenti per trovarlo e poi farlo!
Buon coaching.
Piercarlo
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