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Piercarlo Romeo
sabato, 06 Febbraio 2021 / Pubblicato il Blog

Quando l’azienda impone il coaching non è coaching

coaching-aziendale
 

Care aziende, attenzione a proporre e a scegliere percorsi di Coaching

 

Ci è capitato più volte di incontrare persone non proprio contente e soddisfatte delle proprie esperienze in percorsi di Coaching aziendale.

A prescindere dal modello di coaching e dalle abilità del singolo coach, abbiamo notato che molto spesso questi percorsi di coaching aziendale non sono stati proposti, ma quasi imposti.
Di fronte ad uno scenario di questo tipo la nostra prima esclamazione è “questo non è coaching“.

Mi spiego meglio.

Uno dei presupposti fondamentali e irrinunciabili del coaching è la domanda di coaching: se il cliente non chiede supporto o non ne sente il bisogno, anche se proposto, non può esistere coaching.

Ovviamente molti HR manager e molti imprenditori (presi dagli entusiasmi spesso alimentati dai coach stessi e dalla loro promesse) impongono questi percorsi ai propri collaboratori.

Ecco il primo errore: imporre, anziché proporre coaching.

E da coach professionista devo ammettere che in questi casi aziendali l’errore non è degli HR manager o degli imprenditori: l’errore non è della committenza, ma dei coach o delle aziende che propongono coaching. Sì, perché essendo la domanda di coaching un prerequisito essenziale e irrinunciabile, bisogna comunicarlo alla committenza in massima trasparenza nella fase di proposta e negoziazione. Noi, ad esempio, nel proporre i nostri servizi di Coaching aziendale diciamo apertamente che l’azienda può solo proporre il servizio, al massimo limitandosi a proporre un primo incontro, ma poi deve essere il collaboratore a scegliere il percorso.

Arriviamo così al secondo grande errore frequente nei percorsi di coaching aziendali: il coachee non solo deve scegliere e deve voler seguire il percorso, ma deve anche scegliere il coach, come persona.

Per questo motivo noi proponiamo ai candidati al servizio di coaching di scegliere il proprio coach. Ovviamente i collaboratori non possono fare una sessione con tutti i coach disponibili, ma devono avere la possibilità di scegliere il proprio coach in piena autonomia: tramite una presentazione, una video-presentazione o un incontro conoscitivo-propositivo. Non solo è estremamente elegante e consigliabile, ma è doveroso.

Arriviamo così al terzo errore molto frequente: il coachee deve poter interrompere il percorso in qualsiasi momento o cambiare coach. Invece in molti percorsi di coaching aziendale questa possibilità non viene data, specie se il percorso è a “pacchetto” (del tipo “10 sessioni”): non c’è via di scampo per il povero coachee. In pratica il collaboratore, anche quando non vuole, è “condannato” (so che è un termine un po’ forte, ma spesso succede) a proseguire in un percorso di coaching anche quando non vuole. Peggio se con un coach che non stima e peggio ancora se ha addirittura il timore di comunicare in azienda la sua volontà di interrompere per paura di essere considerato come chi non vuole migliorarsi o come chi non apprezza gli sforzi e gli investimenti aziendali sulla sua figura.

Ahimè, quanta complessità… e tutto è alimentato, quasi sempre, dalle ottime intenzioni di tutti i soggetti coinvolti: l’ufficio HR vuole investire sullo sviluppo professionale dei propri collaboratori, il coach vorrà dare tutto sé stesso per offrire un buon servizio di coaching, e il collaboratore, attento agli investimenti aziendali, non vorrà perdere tempo, massimizzare la propria produttività e dire alla propria azienda se spende bene il denaro aziendale e il tempo del collaboratore stesso.

C’è poi il quarto grave errore nelle proposte di percorsi aziendali di coaching: il coaching su argomenti preordinati e predefiniti.

Ecco il classico dialogo con cui emerge questa pessima abitudine:
A: “Sto facendo un percorso di coaching sulla leadership“.
B: “Ah sì? Lo hai scelto tu?“.
A: “No. Me lo ha organizzato l’azienda“.

È un errore: i contenuti dei percorsi di coaching sono personali e personalizzati e devono essere oggetto di richiesta da parte del coachee o di valutazione congiunta nelle prime fasi di conoscenza tra coach e coachee, qualora quest’ultimo dovesse accettare di conoscere il coach e il coaching per poi decidere se proseguire, come proseguire e, soprattutto, su COSA ricevere coaching. Nel coaching gli “ingredienti” sono definiti dal coachee, non dal coach, né dall’azienda. Il coach è solo un consulente di processo.

Insomma, un’azienda deve fare molta attenzione a proporre percorsi di coaching interni e deve evitare di imporli, altrimenti non possiamo parlare di coaching!

Cosa fare quindi per evitare di cadere in questi errori?

1 – non chiedere/proporre/accettare “contratti chiusi” di coaching (10 sessioni per 10 collaboratori), ma orientarsi su percorsi flessibili, soprattutto in termini di durata;

2 – proporre/richiedere di far conoscere il coaching e i coach disponibili in incontri preliminari o attraverso strumenti di conoscenza quali video-presentazioni, cv o presentazioni in diretta (in presenza e/o on-line) e dar la possibilità di scegliere se accedere al percorso e se sì a quale coach rivolgersi;

3 – proporre/richiedere di dare la possibilità di interrompere il percorso in qualsiasi momento senza alcun pregiudizio da parte della committenza/azienda, né nei confronti del coachee, né nei confronti del coach;

4 – essere molti chiari (e pretendere chiarezza) sul fatto che i contenuti dei percorsi di coaching sono individuali e personalizzati, decisi in autonomia dai coachee e che il coach è vincolato alla massima riservatezza (in qualsiasi caso).

E questo è solo l’inizio… perché come vedremo in qualche altro articolo, ci sono anche i temi della riservatezza, della fiducia, del patto di coaching, del monitoraggio e della valutazione del coaching… e tanto altro…

 
Piercarlo
 
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Taggato in: business coaching, coaching, coaching aziendale, coaching strategico, corporate coaching, executive coaching

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